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Personaggi Illustri

Suor Maria Angela Goglia
Suor Maria Angela Goglia (1910-1996), grande e coraggiosa protagonista di un periodo drammatico per la storia del nostro Paese. Operando a Roma, capitale di un’Italia dilaniata dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Un momento in cui l’imperativo divenne rapidamente quello di salvare tante vite umane: tanti ebrei, come pure soldati che avevano detto basta alla guerra, insieme con i loro familiari. In quel momento suor Angela è vicaria del convento delle Suore Compassioniste in via Torlonia. La religiosa, affrontando il rischio insieme alle consorelle, fornì rifugio, riparo e protezione a patrioti, militari e giovani fuggiaschi, oltre a circa 60 ebrei, fornendo gli opportuni documenti anagrafici ed annonari falsi.
Il 5 giugno 1946 ricevette dal Comandante civile e militare Roberto Bencivenga la croce di guerra al valor militare “sul campo” e l’attestato ufficiale dal Ministero della Difesa nel 1954, unica religiosa a ricevere un così alto riconoscimento quasi in rappresentanza di migliaia di religiose che non si tirarono indietro dinanzi all’appello civile. “Da parte degli uomini – disse Bencivenga al momento del conferimento – io consegno nelle sue mani, Suor Maria, il brevetto e l’insegna metallica della croce di guerra al valor militare; più alta e ambita ricompensa riceverà in cielo dalle mani del Signore”.
Anche il paese natale di suor Maria ha voluto ricordarne la figura, con l’intitolazione di una strada.
Biagio Cusano
CUSANO, Biagio. – Nacque a Vitulano nel Principato Ultra (odierna provincia di’ Benevento) e visse nel sec. XVII; non si conoscono né la data esatta della sua nascita né la famiglia di provenienza.
Basilio Giannelli, giurista e poeta suo conterraneo, nella Descrizione di Vitulano in sestine (pubbl. da A. Mellusi, in Archivio stor. del Sannio, I [1915], 5, pp. 358-73) ricostruisce i momenti significativi della carriera letteraria e forense del C. e delinea un suo apologetico ritratto, definendolo il “gran Cusano”; ma non fornisce invece ragguagli sul suo ambiente di formazione, limitandosi a riconoscere i debiti personali verso un uomo da cui aveva appreso “della legge i veri modi”. Il Giannelli inoltre colloca in un’età assai giovanile la composizione dei primi versi del C. (“Infante ancor con teneri furori / A suprema armonia formò suo canto”, ibid., vv. 169 s.), alludendo chiaramente alla prima raccolta di liriche amorose, L’Armonia, che uscì a Napoli nel 1636 e che perciò può far ritenere posteriore al 1610 la nascita del poeta. Confermata da altre testimonianze dell’opera del Giannelli, la provenienza del C. dal territorio di Vitulano (che allora costituiva “uno stato” comprendente diversi comuni) è avvalorata da passi dell’opera dell’autore stesso che ricorda siti di quella regione e soprattutto il “sublime Taburno”, la montagna che domina la contrada.
Si ignorano i momenti della sua formazione letteraria, che fu verisimilmente compiuta a Napoli secondo le coordinate generali di un classicismo un po’ pedantesco, anche se profondamente assimilato; non chiari nemmeno i caratteri della sua cultura giuridica, che dovette essere certamente assai estesa se egli potrà essere più tardi segnalato come “Lettore in Napoli famoso, per molti anni ne’ publici, e privati Studij, delli Testi, Glosse, Bartolo, e dell’Instituta” (N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, I, p. 49).
La prima raccolta poetica, L’Armonia (1636), pubblicata a poco più di un decennio dal ritorno del Marino a Napoli (1624) e dalla sua successiva morte, colloca il C. tra i marinisti della prima ora, che furono nel loro virtuosismo i più pronti ad utilizzare gli attrezzi dello sterminato laboratorio del maestro. La devozione del C. verso la massima autorità letteraria del tempo viene testimoniata ancor più che dai due sonetti “lugubri” in cui il Marino defunto viene iperbolicamente paragonato a Virgilio, dall’organizzazione complessiva dell’opera che risulta conformata ai criteri di dovizia tematica della Lira.
La raccolta, composta quasi esclusivamente di sonetti, comprende infatti Rime amorose, heroiche e varie, ed offre un campionario di luoghi poetici assai più largo di quello di semplice ascendenza petrarchesca. Nelle Rime amorose infatti, per variare la rappresentazione delle situazioni d’amore, il poeta attinge dalla mitologia classica e dal mondo della natura similitudini forzate ed insistite, consuete alla rimeria barocca contemporanea. I processi di identificazione con personaggi della favola o con oggetti quotidiani lo portano a paragonare l’amante alla statua di Nabucodònosor (“Quando il rapito sguardo e ‘l pensier giro “) o a ritrovare la sua condizione nel destino di una quercia (“Hai le radici tu profonde et ime”), o addirittura a variare situazioni del mito di Ercole (“Stretta fra le mie braccia Hercole amante”). Ma all’invenzione peregrina e alla ricerca scolastica del nuovo manca il gusto per il giocoso che caratterizza altre raccolte dell’epoca; il C. appare infatti chiuso in un presagio di morte che egli avverte non solo attraverso veicoli e simboli abituali come il sonno (“Se ne l’antro Cimmerio, in cui t’ascondi”), ma anche attraverso oggetti del desiderio come la mano della donna (“Roma sembri animata a più d’un core”). Il poeta non costruisce però un’autobiografia della passione; egli, infatti, oltre a introdurre più figure femminili nello stesso sonetto (“0 belle parche al mio stame vitale”), appare costantemente curioso degli amori e delle vicende altrui fino a popolare la sua raccolta di figure eccentriche e deformi (gobbi, zoppi) con cui riesce a moltiplicare le possibilità di descrizione e di invenzione. Le Rime heroiche, indirizzate a destinatari altolocati, accanto ai toni celebrativi propri della letteratura encomiastica, offrono riflessioni di repertorio sulle rovine romane e sul senso di precarietà della condizione umana; le Varie presentano accenti personali e, oltre al rammarico per l’indifferenza degli autorevoli amici verso la sua opera, contengono anche riferimenti a private sciagure che condussero il poeta lontano dalla patria.
In tutta la raccolta il C. esaspera la tendenza antitradizionalista che spingeva a scegliere i topoi letterari in un repertorio tematico assai largo e ad arricchire di similitudini e analogie la tastiera dei motivi poetici. Di scontato effetto e di laboriosa resa formale appare il tessuto stilistico, fondato su artifici abbondantissimi che vanno dall’anafora alle rime identiche, anche se l’antitesi appare la figura dominante, adoperata come strumento di ingegnose combinazioni e spesso di monotona e uniforme ripetitività. La lirica del C. risulta perciò schierata accanto alla lezione moderna della poesia barocca e a quella non lontana del Tasso; ma in essa pare anche continuarsi il gusto per il petrarchismo concettoso della tradizione napoletana dei secoli precedenti, che approda spesso a, un tono aggraziato e madrigalesco che il Croce definì di “sottigliezza galante” (Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1911, p. 418).Difficile ricostruire le vicende successive della vita del poeta, che appare già nell’Armonia costretto ad allontanarsi da Napoli. Nel 1658 occupa la cattedra di Ius civile straordinario o Pandette all’università napoletana; ma la ponderosa raccolta successiva De’ caratterid’heroi (in due volumi) esce a Napoli nel 1661 dopo che per “le tempestose fortune” dell’autore era rimasta “sotto il torchio otioso della stampa” per oltre dieci anni.
La nuova raccolta risponde ai mutati gusti della letteratura barocca della seconda metà del secolo, improntata ora ad un classicismo fastoso e magniloquente, quasi antidoto allo sfacelo politico-sociale contemporaneo. Il ricorso all’eroico si configura infatti anche in quest’opera del C. come ricerca di certezze e di verità garantite da prototipi umani della massima esemplarità. Questo carattere di sfida della poesia alla fugacità del tempo era già colto da G. F. Bonomi, che nel sonetto “Imprimesti di Febo in sù gli annali” (Il parto dell’orsa, Bologna 1667, II, pp. 204. s.) opponeva secentescamente la durata del canto al perenne fluire della storia: “Di sublimi Guerrier geste immortali 1 Benché strugga l’Età co’ i voli suoi, / De’ gli inchiostri co’ i balsami vitali / Le puoi chiare serbar su’ fogli tuoi” (vv- 5-8). L’opera del C. si riconnette letterariamente alla moda dell’epistola erudita e mitologica alla maniera delle Heroides, che il Bruni aveva già diffuso con Le Epistole eroiche del ’26, seguendo suggerimenti mariniani; anche il C. appare peraltro vincolato alle indicazioni della prefazione della parte III della Lira, in cui si autorizzava ad aggiornare e allargare il modello ovidiano fino alla trattazione delle imprese di eroi dell’epos volgare e perfino “delle attioni notorie e vulgari di persone introdotte in altri poemi e romanzi Greci. Latini e Spagnuoli”.
Le epistole in versi scritte da personaggi celebri della Bibbia e della mitologia, della storia antica e recente, dei poemi epici moderni e dell’agiografia cristiana a destinatari tradizionalmente associati alla loro vita (Adamo a Caino, Admeto ad Alceste, Colombo a Ferdinando, Bradamante a Ruggiero, Alessio ad Agale, ecc.) sono precedute da una dedica ad illustri personaggi e corredate da una prefazione che indica le fonti e l’argomento. Gli eroi vengono rappresentati generalmente nel momento di pericolo e di sofferenza; ma le loro imprese sono interpretate con grande libertà rispetto alla tradizione storica e leggendaria. Artificioso è per lo più il nesso che collega la vicenda eroica con la figura dei destinatari, tra i quali emergono personaggi eminenti della vita politica contemporanea, come don Marcello Grimaldi che restaurò l’ordine “nel diluvio delle napoletane rivoluzioni”. Analogo ossequio verso le istituzioni si avverte fin dalla premessa (“L’Autore a chi legge”), dove il poeta., preoccupato soprattutto di giustificare il suo esercizio di cultura profana avverte “d’aver più cattolica la mente che poetica la penna” e di “esser adoratore di Christo, non idolatra d’Apollo”.
Valore occasionale ed encomiastico hanno i ventiquattro sonetti dedicati al cardinale Ottavio Acquaviva d’Aragona, I dolori consolati della Sirena (Napoli 1665), accompagnati da anonime Paraphrases latinae, che celebrano l’incoronazione di Carlo II, succeduto al padre Filippo IV, la cui morte era stata occasione a Napoli di sontuose e spettacolari onoranze funebri. Nonostante il favore di cui doveva godere presso le autorità, come attesta un’opera siffatta, nel 1666 il C. viene imprigionato perché trovato a leggere instituta nella chiesa di S. Antoniello.
Ad un’esigenza devozionale obbediscono le Poesie sagre (Napoli 1672), irnprontate ad un rigido conformismo, avvertibile fin dalla cautissima prefazione: “Se nel concento di queste Sagre Rime ha forse voci false che non s’accordino col sovrano della gerarchia catholica, l’autore ne canta mille volte la palinodia”.
La raccolta contiene una prima parte comprendente sonetti che esaltano episodi della vita di Cristo e dei santi, e una seconda comprendente rime di metro vario che svolgono temi di argomento morale. Il libro vuole essere testimonianza di pentimento per le debolezze amorose e per la ricerca dei “vani lauri” della giovinezza e si propone di evitare ogni tentazione mondana con la contrizione e il cordoglio (“quell’errante furor piango cantando”). Accanto al tono accorato e devoto di deplorazione della vita peccaminosa, riconducibile al motivo diffuso del vanitas vanitatum e della fragilità della condizione umana, prevale l’oratoria celebrativa diretta soprattutto verso i nuovi santi della Controriforma, da s. Francesco Saverio a s. Filippo Neri. Ma il componimento più significativo è indubbiamente la canzone di impianto petrarchesco “L’Appennin che d’Italia il sen divide”, che si ricollega, oltre alla maniera pindarica del Chiabrera e del Testi, anche all’ispirazione luttuosa di un Ciro di Pers e soprattutto alla poesia lugubre dei tardocinquecentisti napoletani e di Tasso. La canzone è infatti un compianto dell’Italia impoverita e imbarbarita, sottoposta a ogni sorta di flagelli e calamità naturali e politiche, interpretati come ammonimenti e prove della volontà di Dio, che per riportare la pace sulla terra esige un ravvedimento radicale: “tu muterai consiglio ed ei seritenza”.
Nel 1676 il C. è chiamato a ricoprire la cattedra di diritto canonico (“ottenne la primaria matutina de’ Canoni”: P. Napoli Signorelli), succedendo a Giuseppe Pulcarelli dopo tre anni di vacanza. A questa carica universitaria allude lo stesso autore che, nell’inviare un sonetto di elogio a N. Toppi per la sua Biblioteca napoletana, si definisce “Lettore primario in Napoli”. Di questo impegno di studi il Toppi segnala come frutto la composizione di un trattato De evictionibus, mentre non fornisce né i titoli né l’argomento di altre opere letterarie e giuridiche che a suo dire il C. stava componendo in quel periodo. “Nell’andare a leggere nel 1683 morì d’apoplesia” (Napoli Signorelli); le sue lezioni furono completate da Geronimo Cappelli.
Fonti e Bibl.: G.F. Bonomi, Il parto dell’orsa, Bologna 1667, II, pp. 204 s.; N. Toppi, Biblioteca napol., Napoli 1678, I, p. 49; V. Ariani, Commentarius de claris iureconsultis Neapolitanis, Neapoli 1769, p. XIX; P. Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle Due Sicilie, Napoli 1786, V, p. 69; Lirici marinisti, a cura di B. Croce, Bari 1910, pp. 155-58; B. Croce, Saggi sulla letter. ital. del Seicento, Bari 1911, pp. 402, 418, 431; A. Mellusi, Le sestine inedite di B. Giannelli su la Valle di Vitulano, in Arch. stor. del Sannio, I (1915), 5, pp. 358-73; Id., Un poeta della scuola del Marini, ibid., VIII (1922), 1, pp. 25-29; N. Cortese, in Storia dell’università di Napoli, Napoli 1924, p. 337 e passim; R. Pedicini, Un lirico marinista: B. C., in Saggi e profili letterari, Roma 1939, pp. 59-112; Opere scelte di G. B. Marino e dei marinisti, a cura di G. Getto, Torino 1954, II, pp. 334 ss.; Marino e i marinisti, a cura di G. G. Ferrero, Milano-Napoli 1954, pp. 801 s.; Poesia del Seicento, a cura di C. Muscetta – P. P. Ferrante, Torino 1964, I, pp. 606 s.

Giovanni Domenico Verusi
DALLE RICERCHE DELLA PROF.SSA MARIA ROSARIA MARCHIONIBUS SULLA TRICHEIRUSA DI VITULANO.
La comparsa di una Tricheirousa nel Beneventano, iconografia rara e poco conosciuta in Occidente, deve essere stata veicolata necessariamente da un personaggio dalla cultura particolarmente ampia e, soprattutto, legato direttamente alle regioni balcaniche, territori in cui forte era la devozione per questa icona e dove essa era invocata tradizionalmente per disperdere le epidemie di peste. Negli Acta Bulgariae Ecclesiastica (1565-1789), ho potuto rintracciare, in alcune lettere inviate da Pietro Bogdan, vescovo di Sofia, al Segretario del Collegio di Propaganda Fide, numerose citazioni relative a Giovanni Domenico Verusi, suo procuratore fedelissimo e amico, che era – guarda caso – originario di Vitulano. Dallo scambio epistolare emerge il legame forte di amicizia e fiducia tra il vescovo e il suo procuratore, e si apprende che a Pietro è stata assegnata anche la cura della Valacchia e della Moldavia e – cosa ancora più rilevante – che egli risulta essere in strettissimi contatti con la chiesa serba. Inoltre Pietro Bogdan stesso, in una lettera del 1650, chiede che siano inviati tre quadretti della Madonna con il Bambino nel braccio ai casali dei Paulianisti, siti nei pressi di Filippopoli, dove lui aveva effettuato una visita pastorale. Giovanni Domenico Verusi, poi, nel 1648 diviene anche procuratore di Raffaele Levakovic, arcivescovo di Ohrida, intensificando ulteriormente i rapporti con il territorio balcanico. Nel 1636 a Verusi viene affidata la tipografia della Propaganda Fide, circostanza che attesta la ricca e profonda cultura di tale personaggio. Egli cura, infatti, il primo catalogo delle stampe della Propaganda Fide (Elenchuslibrorum sive typis, sive impensis S. C. de Propaganda Fide impressorum) e, forse, è autore, intorno alla metà del XVI secolo, di una Relazione della regione dell’Indostandominio del Gran Mogol, in undici pagine, e nel 1665 di una Relatione della Siria, particolarmente della santa città di Gierusalem, suoi santuarii e viaggio di D. Gio. Dom. Verusio, rettore della Chiesa Parochiale del Ss. Salvatore in Ponte Senatorio di Roma in ventotto pagine Monumenta spectantia Historiam Slavorum Meridionalum, volume XVIII, Acta Bulgariae Ecclesia-stica, Ab A. 1565 usque ad A. 1799, collegit et digessit P. Fr. Eusebius Fermend žiu ordinis S. Francisci, provinciae S. Joanni Capistrani, Sacerdos, edidit Academia Scentiarum et Artium Slavorum Meridiona-lium,
Zagrabiae 1887, p. 111, n. 61, anno 1641. Quest’ultimo elemento sembrerebbe adombrare la possibilità che lo stesso Verusi non era estraneo ai viaggi al di fuori dell’Italia e che forse egli, negli anni in cui era procuratore di Pietro Bogdan, si possa essere recato nei Balcani. Inoltre, durante la peste del 1656, egli è attestato a Roma come rettore della chiesa Pastorale del Santissimo Salvatore ai piedi del Ponte Senatorio, notizia che dimostra la sua presenza in Italia nel periodo interessato dal devastante morbo. Dunque, è possibile che Verusi possa essere venuto a conoscenza, tramite la sua amicizia e collaborazione di lavoro con il vescovo di Sofia, dell’esistenza della Tricheirousa, una portentosa immagine acheropita particolarmente efficace nei confronti della peste, e che nel momento in cui il morbo devastava l’Italia sia stato proprio lui il tramite per la diffusione nel Beneventano di un’iconografia così desueta e rara,
o, addirittura, abbia egli stesso commissionato la trasformazione dell’icona di Vitulano in una Vergine dalle Tre Mani per liberare la sua terra di origine dall’epidemia che stava devastando l’Italia.La superficie lignea dell’icona beneventana – reliquia visiva della Vergine di Chilandari – trasmuta, pertanto, la complessa retorica dei gesti di Maria e di Cristo, effigiati secondo la combinazione iconografica Hodighitria – Tricheirousa, in una materia composta da immaginiferi simbolici potentemente eloquenti e miracolosamente salutiferi. L’icona di Vitulano non è, pertanto, una mera immagine inanimata, ma sublima la sua essenza, divenendo reliquia di prodigi e palladium onnipotente.
Basilio Giannelli
GIANNELLI, Basilio. – Nacque il 1° febbr. 1662 a Vitulano, nei pressi di Benevento, nel Principato Ulteriore, da Domenico e Isabella Di Barto.
Compì i primi studi nel paese natio, ricevendovi “quella educazione e quella disciplina che lo condussero all’acquisto di un buon costume e di buone lettere” (Educazione al figlio, p. 2). Alla morte del padre fu a Napoli, dove, accanto ai prediletti studi letterari, intraprese quelli giuridici, orientandosi verso la professione forense. Gli furono maestri Biagio Cusano e Vincenzo Widman. Del primo, suo conterraneo, poeta d’ispirazione marinista e autorevole professore dello Studio napoletano, delineò il ritratto nelle sestine della Descrizione di Vitulano; del secondo scrisse come di colui al quale – insieme con Francesco D’Andrea – “dovemo l’essersi introdotto nel nostro foro l’uso della più vera ed antica eloquenza” (lettera ad A. Magliabechi, 25 marzo 1687). Il dissidio tra la necessità di praticare la carriera forense e il desiderio di una totale dedizione alle lettere e alla poesia condizionò i primi anni dell’esperienza del G. a Napoli, come egli stesso confessò in una lettera al Magliabechi del 12 febbr. 1687.
Amico di G. Vico, il G. fu pienamente partecipe di quel filone di cultura anticuriale, antiscolastica, cartesiana, innovativa nei metodi d’indagine scientifica, vicina alle esperienze europee, che si sviluppò a Napoli a metà del secolo ed ebbe in Tommaso Cornelio, Leonardo Di Capua, Francesco D’Andrea i protagonisti più rappresentativi, e nell’attività dell’Accademia degli Investiganti il punto di riferimento collettivo. Al rinnovamento culturale di quegli anni, infatti, si accompagnò la crescita intellettuale e politica del ceto civile, legato alle professioni liberali, che intravide nuove opportunità di un’autonoma funzione civile e politica nell’incrinarsi del vecchio equilibrio tra aristocrazia e Viceregno.
Agli anni dal 1681 al 1684 risalgono le prime liriche amorose del Giannelli. Nell’Educazione al figlio, composta in età matura, trattando delle sue prime esperienze poetiche, egli le colloca all’interno del movimento neopetrarchista, sorto a Napoli verso la metà del Seicento come reazione alle forme estreme e parossistiche del marinismo. Leonardo Di Capua, Tommaso Cornelio e Carlo Buragna furono gli antesignani di questa corrente che porterà, in poesia, alla creazione del linguaggio semplice e musicale dell’Arcadia.
Al 1685 risale l’inizio della corrispondenza tra il G. e A. Magliabechi. Al bibliotecario toscano, che per oltre un quarantennio fu guida e autorevole mediatore di quella “repubblica dei letterati” che unì in una fitta trama epistolare studiosi italiani e stranieri, il G. indirizzò, tra il 1685 e il 1690, 17 delle 29 lettere che costituiscono il totale dell’epistolario a noi giunto. Attraverso di esse è possibile seguire, intrecciata con le vicende biografiche, la parabola dell’attività poetica del Giannelli. Nel 1687 egli pregava il corrispondente di intercedere presso il granduca di Toscana Cosimo III affinché gli concedesse un vitalizio per potersi interamente dedicare alla composizione di un poema, la Buda conquistata, con il quale intendeva celebrare la vittoria riportata dall’imperatore Leopoldo I contro i Turchi. Ne compose soltanto il primo canto (andato perduto) e più tardi, in una canzone dedicata a Giuseppe Valletta (Poesie, p. 161), accennando all’impresa interrotta, espose la convinzione che fosse impossibile per la poesia giungere a esiti positivi in un ambiente di assoluta arretratezza culturale e civile. Sempre nel 1687 il G. comunicava al Magliabechi (25 marzo 1687) l’intenzione di raccogliere in volume le sue rime, a ciò “mosso dalle spesse preghiere degli amici”. La preparazione della raccolta iniziò nel maggio del 1689 e si concluse l’anno dopo con la pubblicazione a Napoli del volume delle Poesie, dedicato a Niccolò Gaetani dell’Aquila d’Aragona, che aveva sostenuto le spese della stampa.
Il volume, il cui contenuto era in parte già noto, si articolava in tre sezioni, corrispondenti ad altrettanti generi di poesia, tanto da far supporre che il G. intendesse proporre ai rimatori contemporanei, che si allontanavano sempre più dalla matrice petrarchesca, modelli poetici esemplari, secondo il magistero del grande trecentista. è questo l’aspetto che meglio fu colto dai contemporanei, che lodarono la perfezione stilistica e considerarono le rime del G. composizioni “che dovrebbero servir di regola a chi è chiamato a studij delle muse più accurate” (B. Bacchini, in Giornale dei letterati di Parma, I [1690], p. 6). In una lettera al G. F. Redi gli comunicava che le sue rime erano lette “da’ primi letterati di Firenze […] con diletto uguale con cui si leggono le rime del Petrarca” (Educazione al figlio, p. 163). Nei sonetti, il tema amoroso è svolto seguendo i motivi tradizionali petrarcheschi, e su di essi sono ricalcati pure i modi e i luoghi della vicenda amorosa. Ma è nel motivo, pure canonico, del contrasto tra la natura fiorente e la tristezza causata dal travaglio amoroso che la poesia del G. supera l’impostazione petrarchesca e acquista una precisa coloritura arcadica. Tale esito più che nei nomi pastorali dei suoi personaggi – Filli è quello della donna amata – risulta evidente nella raffigurazione idilliaca e serena della natura, all’interno della quale si risolve, pacificandosi, il tumulto delle passioni. La seconda sezione delle Poesie raccoglie rime dedicate a temi filosofici e morali, mentre una terza, distinta anche tipograficamente dalle precedenti, presenta sonetti celebrativi e d’occasione dedicati ad alcuni dei protagonisti del rinnovamento culturale napoletano: L. Di Capua (CXXI), F. D’Andrea (CXXXVIII), Giuseppe Valletta (IX), Nicolò Caravita (CLVIII), Gregorio Caloprese (CXLV). In essi, temi derivati dalle riflessioni degli Investiganti, come la teoria dei corsi e ricorsi storici e il motivo lucreziano della decadenza, si intrecciano a pessimistiche riflessioni sulle difficoltà e il crescente isolamento che circondava, a Napoli, l’azione intellettuale.
Già dal marzo 1688, infatti, Francesco Paolo Manuzzi, giovane avvocato di Conversano, aveva reso a monsignor Giuseppe Nicola Giberti, ministro del tribunale del S. Uffizio, una spontanea deposizione con la quale denunciava l’esistenza a Napoli di un gruppo di persone seguaci dell’atomismo. Ne avrebbero fatto parte il G. e Giacinto De Cristofaro, giurista e poi matematico, figlio del celebre e popolare avvocato Bernardo, dai quali, secondo le sue accuse, il Manuzzi sarebbe stato iniziato alle idee eretiche. Il Manuzzi chiamò in causa anche Filippo Belli, che con il G. e il De Cristofaro aveva frequentato lo studio legale di Carlo Cito, e altri, amici e familiari, frequentatori di quel circolo di giovani – detto degli “ateisti” – che solevano riunirsi presso la farmacia di Carlo Rosito e che “sebbene beffeggiati col nomignolo di “decem sapientes” seppero fare non pochi proseliti col loro continuo discorrere della dottrina degli atomi, di Epicuro, di Lucrezio e della mortalità dell’anima” (Nicolini, 1932, p. 83).
Fu l’inizio di un complicato processo che, a fasi alterne, si protrasse per nove anni, giungendo a lambire personaggi come F. D’Andrea, e che fu visto come la dura reazione del potere ecclesiastico e dei circoli nobiliari più ortodossi al movimento rinnovatore e alla sua capacità di collegarsi con le strutture del governo vicereale. Le dottrine che si intendeva colpire erano quelle che più pericolosamente insidiavano l’autorità della Chiesa e l’integrità della fede: le opere di Cartesio e di Gassendi, l’interesse che circondava a Napoli l’opera e la figura di Galilei, l’ipotesi atomistica che legava la ricerca umanistica all’indagine scientifica.
Il ritrovamento dei documenti originali ha permesso una ricostruzione più accurata delle vicende processuali e ne ha arricchito il quadro d’insieme, suggerendo che dietro l’iniziativa del Manuzzi, che era agente di Giulio Acquaviva d’Aragona, conte di Conversano, vi fosse il tentativo di questo turbolento e riottoso feudatario, da tempo in rotta con il potere vicereale, di coinvolgere i più alti consiglieri del viceré in uno scandalo di vaste proporzioni. Il G. era, infatti, notoriamente in stretti rapporti, oltre che con Francesco e Gennaro D’Andrea, con Giuseppe e Federico Cavalieri, quest’ultimo segretario del Regno, divenuto in quell’anno avvocato fiscale della Sommaria, e con Fulvio Caracciolo.
Il terremoto del giugno 1688 interruppe l’istruzione del processo proprio mentre da Roma si sollecitava l’incarcerazione degli imputati. Nel marzo 1689, il G., consapevole ormai di essere tra i principali indagati, si presentava, per viam praeventionis, dinanzi al tribunale del S. Uffizio. Progettava, intanto, un viaggio alla corte di Spagna al seguito del reggente del Consiglio d’Italia Gennaro D’Andrea (lett. al Magliabechi del 21 febbr. 1690) e alla fine di luglio era effettivamente giunto a Madrid. In questa città alloggiava nella medesima casa del Manuzzi, anch’egli in Spagna per incarico del conte di Conversano. Nell’agosto 1691 il nuovo delegato del S. Uffizio a Napoli decise, anche a seguito di rinnovate pressioni provenienti da Roma, di dar corso alla denuncia, disponendo l’arresto del De Cristofaro e di altre “persone civili” e chiedendo a Madrid l’incarcerazione del Giannelli.
Con ciò si riapriva, di fatto, lo scontro tra Stato e Chiesa sul terreno della vecchia questione delle competenze del S. Uffizio nel Regno. La reazione delle forze cittadine fu immediata e unanime, e determinò l’intervento del viceré, che impose il passaggio del processo alla corte arcivescovile e l’allontanamento del delegato del S. Uffizio da Napoli. A tale decisa presa di posizione della città corrispose un analogo irrigidimento della Curia romana e dell’arcivescovo di Napoli Giacomo Cantelmo, che portò a un’inflessibile ripresa della procedura anche tramite pressioni sull’Inquisizione spagnola. A seguito di ciò, nel dicembre 1691 comparve spontaneamente davanti ai giudici spagnoli il Manuzzi, che riconfermò le accuse rese a Napoli, aggiungendo anche nuovi nomi, tra i quali quelli dei fratelli del G., Giacomo e Gennaro. Ai primi del 1692 il G. fu incarcerato. Nel corso del primo interrogatorio, il 18 gennaio, egli tentò di sostenere la tesi che ad accusarlo erano state persone a lui ostili che avevano riferito, distorcendone il senso, alcune libere conversazioni avvenute nella libreria di Antonio Bulifon, nel corso delle quali si era discusso delle teorie di Lucrezio circa la mortalità dell’anima. Venne interrogato per altre cinque volte, finché, nel corso dell’ultima udienza, il 21 marzo, piegato forse anche dalla tortura, ammise ogni accusa, confessando di essere responsabile degli errori nei quali erano caduti il Manuzzi e il De Cristofaro. Dichiarò inoltre che avrebbe voluto presentarsi all’Inquisizione di Napoli, ma la paura di essere incarcerato lo aveva trattenuto. Eguale timore aveva avuto a Madrid, ma la notizia che a Napoli era stata chiesta la sua incarcerazione lo aveva spinto a costituirsi; era però stato arrestato prima che potesse farlo. Il 27 marzo fu nuovamente chiamato dinanzi ai giudici per abiurare gli errori filosofici che gli erano stati addebitati e ascoltare la condanna del tribunale. Questa, per l’intervento del Consiglio d’Italia, che già nella seduta del 12 marzo aveva chiesto a Carlo II di intercedere presso l’inquisitore generale per la liberazione dell’imputato, fu più mite del previsto, risolvendosi nella confisca dei beni (che fu subito condonata), nell’esilio da Napoli e da Madrid per quattro anni, e nella proibizione di leggere i libri degli autori che lo avevano indotto all’eresia.
Il G., imbarcatosi su un mercantile inglese, ritornò subito in patria e il 23 agosto depose un’ultima volta a Napoli dinanzi al tribunale che stava giudicando il De Cristofaro. La deposizione resa dal G. sembra rispecchiare completamente lo schema inquisitoriale (tranne che per non aver voluto ammettere di aver negato il miracolo di s. Gennaro) e riflette il desiderio di uscire definitivamente da quella vicenda, che si concluse cinque anni dopo con la condanna del De Cristofaro, del quale peraltro il G. accentuò la responsabilità rispetto a quanto aveva detto ai giudici spagnoli.
Il G. si ritirò quindi a Vitulano sotto la protezione dell’arcivescovo di Benevento, cardinale V.M. Orsini, con il quale era in rapporto dal 1686, quando il giovane prelato era giunto da Cesena a reggere la diocesi di Benevento. Il 24 nov. 1695, riallacciando i rapporti epistolari con il Magliabechi attribuì il lungo periodo di silenzio (la lettera precedente era del maggio 1690) all'”infortunio accadutomi in Ispagna, l’assenza mia da Napoli, le infermità e vari altri accidenti”. Con la medesima lettera inviò un’Orazione panegirica all’eminentissimo signor cardinale Orsini, arcivescovo di Benevento (Benevento 1693), un Discorso nel quale si prova che il corpo di san Bartolomeo apostolo stia in Benevento (ibid. 1695; rist. 1713) e una canzone per la morte di L. Di Capua, che fu poi inserita nella raccolta Delle rime scelte di vari illustri poeti napoletani (II, Firenze 1723, pp. 177-181). Annunciò inoltre il proposito di scrivere una storia d’Italia in continuazione di quella di F. Guicciardini, di cui aveva già composto i primi due volumi, che non ci sono pervenuti, e che rimase per il resto allo stato di progetto. L’anno seguente, trascorso il periodo di esilio cui era stato condannato, ritornò nella capitale (lett. al Magliabechi del 18 dic. 1696). Qui cercò invano di ricucire il filo dei rapporti con quel mondo culturale dal quale la vicenda inquisitoriale lo aveva progressivamente allontanato. Si dedicò, con successo, all’attività forense – non ci sono giunti tre volumi di sue allegazioni, “scritte con una eleganza e purità di stile adattato all’uso del Foro” (Educazione al figlio, p. 4) – e agli studi eruditi, componendo versi che figurarono in numerose raccolte celebrative dell’epoca. Nel 1701 pubblicò l’Orazione per l’elezione del gloriosissimo Filippo V in re delle Spagne, per richiesta – come si legge nella prefazione – di Andrea d’Avalos principe di Montesarchio, che aveva guidato in quello stesso anno la repressione della congiura filoaustriaca detta di Macchia. Intorno al 1710 si diede a comporre l’Educazione al figlio, una raccolta di consigli e precetti, dedicata al figlio primogenito Domenico, a imitazione degli ancora inediti, ma largamente noti, Avvertimenti ai nipoti di F. D’Andrea.
L’opera, che il G. non intese scrivere “per pubblico insegnamento” e perché fosse data alle stampe, comparve postuma nel 1781 (Educazione al figlio dell’avvocato e g. c. napoletano Basilio Giannelli seniore arricchita di note istorico-critiche dell’avvocato Basilio Giannelli juniore, Napoli 1781). In essa di grande interesse sono le notizie che il G. dà sulla vita letteraria e forense della Napoli tra la fine del Seicento e i primi anni del Settecento. L’opera attirò l’interesse di B. Croce per la parte nella quale il G. discuteva delle teorie estetiche di Gregorio Caloprese, maestro di G.V. Gravina e poi di P. Metastasio, in relazione soprattutto al “valore da riconoscere in arte all’espressione degli affetti” (Croce, 1929, p. 224).
Il G. morì, prematuramente, a Napoli, il 23 giugno 1716, colpito nel sonno da un cameriere che voleva derubarlo. Fu arcade dal 1706, con il nome di Cromeno Tegeatico.
Fonti e Bibl.: Un volume di Varie poesie, in parte inedite, del G. è conservato nella Bibl. nazionale di Napoli, ms. XIII.C.107; uno di Poesie inedite nella Bibl. provinciale di Benevento, ms. 120; A. Mellusi, Le sestine inedite di B. G. su la valle di Vitulano, in Riv. stor. del Sannio, I (1914-15), pp. 359-374; le lettere al Magliabechi sono pubblicate in Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi, a cura di A. Quondam – M. Rak, I, Napoli 1978, pp. 495-524. D. Confuorto, Giornali di Napoli dal 1679 al 1699, a cura di N. Nicolini, II, Napoli 1930, p. 1; G. Vico, Opere, a cura di F. Nicolini, Milano 1953, p. 40; L. Osbat, L’Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti (1688-1697), Roma 1974; Panfilo Teccaleio [G. Cito], B. G., in G.M. Crescimbeni, Notizie istoriche degli Arcadi morti, II, Roma 1721, pp. 136-140; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, III, Venezia 1734-47, p. 76; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1884, pp. 147, 399; L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, II, Città di Castello 1892, pp. 57-61; B. Croce, La filosofia di G. Vico, Bari 1911, p. 278; R. Cotugno, La sorte di G.B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie dalla fine del XVII secolo alla metà del XVIII secolo, Bari 1914, pp. 51, 177, 188; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1924, p. 174; Id., Storia dell’età barocca in Italia, Bari 1929, pp. 219 s., 224; F. Nicolini, Nuove ricerche sulla vita del Vico, in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, III (1929), pp. 14-16 e passim; B. Croce, Conversazioni critiche. Serie terza, Bari 1932, p. 40; F. Nicolini, La giovinezza di G.B. Vico (1668-1700), Bari 1932, passim; Id., Aspetti della vita italo-spagnola nel Cinque e Seicento, Napoli 1934, pp. 326, 328; R. Pedicini, Un poeta del Seicento: B. G., in Id., Saggi e profili letterari, Milano 1939, pp. 113-158; A. Zazo, Due lettere inedite del cardinale V.M. Orsini (1698-1700), in Samnium, XIII (1940), p. 110; F. Nicolini, La religiosità di G.B. Vico, Bari 1949, pp. 21, 24, 32, 51; A. Zazo, Un’annosa controversia per la libertà di commercio fra Napoli e Benevento (1707-1719), in Samnium, XXIII (1950), p. 96; N. Badaloni, Introduzione aG.B. Vico, Milano 1961, pp. 192, 194, 298, 327; R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del Viceregno napoletano (1656-1734), Roma 1961, pp. 71, 85; P. Giannantonio, L’Arcadia napoletana, Napoli 1962, pp. 142-152; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965, passim; M. Vitale, Leonardo di Capua e il capuismo napoletano, in Acme, XVII (1965), pp. 95, 142 s.; V.I. Comparato, Giuseppe Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del Seicento, Napoli 1970, pp. 143-148, 246, 263; A. Quondam, Dal Barocco all’Arcadia, in Storia di Napoli, IV, Napoli 1970, pp. 852-861; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Napoli 1972, ad ind.; T. Giordano, Introduzione al Canzoniere di B. G., in Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Napoli, s. 4, XVI (1973-74), pp. 137-155; S. Basile – A. Ferraiuolo, Poeti beneventani dal Seicento al Novecento. Mostra bibliografica di testi poetici, Benevento 1988, p. 17; D. Giorgio, Autobiografia meridionale: studi e testi, Napoli 1997, ad nomen.
Camillo Mazzella

Teologo (VitulanoBenevento, 1833 – Roma 1900); entrato nella Compagnia di Gesù nel 1857, fu professore in varie scuole dell’ordine e dal 1878 fu uno dei rappresentanti del neotomismo italiano. Tra le sue opere: De Deo creante (1880), De religione et ecclesia (1892), De gratia Christi (1892), De virtutibus infusis (1894) e lo scritto pubblicato anonimo, antirosminiano:Rosminianarum propositionum trutina theologica (1892). Fu cardinale (1886) e vescovo di Palestrina (1892). n Anche il nipote Orazio (Vitulano 1860 – Benevento1939), sacerdote (1883), vescovo di Cuma (1896) e arcivescovo di Taranto (1917), fu filosofo tomista; opera principale, le Praelectiones scholasticae-dogmaticae (4voll., 1921).

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On. Enrico Riola
Nel centro storico di Ponte vi è una piccola piazza che era la corte interna dell’antico Castello di origine Longobarda costruito tra l’anno 980 e il 1087. La Piazza, in un periodo, purtroppo, imprecisato, fu intestata ad un Parlamentare della nostra zona, di cui rimangono solo poche notizie: l’On. Enrico Riola di Vitulano al cui mandamento Ponte appartenne dal 1892 al 1913 essendo in questo periodo una frazione di Paupisi. Egli nacque e dimorò per tutta la vita in Vitulano esercitando la professione di Avvocato in tutte le Preture del Collegio di Montesarchio e Benevento.
Il Collegio elettorale di Montesarchio, allora uninominale, comprendeva quattro mandamenti: Airola, Montesarchio, S. Agata dei Goti e Vitulano.
Enrico Riola non era, un Avvocato di grido, però nelle due legislature in cui fu deputato dal 1890 al 1900 operò molto bene tanto da accattivarsi le simpatie di moltissimi elettori dell’intero Collegio. Si prodigava per tutti non trascurando nessuno di quelli che gli si rivolgevano anzi egli stesso invogliava gli elettori a sottoporgli le loro richieste e portava a termine con sollecitudine ogni pratica che gli veniva affidata.
Siccome ai suoi tempi i mezzi di comunicazione non erano come oggi egli noleggiava un calesse con il quale girava tutti i paesi del Collegio per essere presente tra gli elettori. Aveva una natura modesta e schiva che lo portava ad operare senza esibizionismo trattando tutti con affettuosa cordialità. Era umile e dimesso e sempre pronto a venire incontro alle esigenze della gente specialmente i più poveri che spesso aiutava nel più scrupoloso silenzio.
L’on. Enrico Riola fu anche Presidente dell’Amministrazione Provinciale di Benevento dal 13 Agosto 1888 al 10 Settembre 1990 data in cui si dimise perché eletto deputato al Parlamento Italiano.
Mentre per gli altri parlamentari, che hanno avuto intestato una piazza o una via di Ponte, si conoscono le motivazioni di tale scelta per Enrico Riola non è stato possibile appurarle. Si potrebbero avanzare delle ipotesi cioè un suo interessamento, in qualità di Presidente della Provincia alla richiesta dei pontesi per essere staccati da Casalduni, di cui Ponte faceva parte dal 1829, per essere uniti a Paupisi. Si potrebbe anche ipotizzare un suo interessamento da parlamentare alle successive richieste di autonomia.
Senatore Paolo Mazzella
Angelo Martini
Fino a qualche tempo fa, il nome di Angelo Martini era, per i Vitulanesi, quello di un perfetto sconosciuto. Pur essendo una figura non secondaria nel panorama culturale italiano dei primi decenni del novecento, l’uomo e la sua opera erano del tutto ignorati dai suoi conterranei.
La riscoperta del personaggio e la ricerca di notizie sulla sua vita sono legate al verificarsi di una singolare circostanza.
Nel gennaio di quest’anno, perveniva, infatti, al Comune di Vitulano una lettera con la quale il prof. Ilario Tolomio, dell’Università di Padova, si rivolgeva al sindaco per avere una fotografia del vitulanese Angelo Martini, docente di Filosofia teoretica presso l’Università di Catania, negli anni 1906-1923. La richiesta dello studioso padovano era motivata dall’intenzione di inserire la fotografia in un suo libro in cui si parla, tra gli altri, anche del nostro conterraneo.
Lo spunto offerto dalla richiesta del professore di Padova ha suscitato il bisogno e la curiosità di approfondire la conoscenza del nostro illustre concittadino ingiustamente dimenticato. Il desiderio di sapere qualcosa di più in merito alla sua figura e alla sua opera ha ispirato, quindi, una ricerca che ha consentito di raccogliere le notizie essenziali per tracciarne il profilo che segue.

Angelo Maria Martini, figlio di Angelo e di Botte Orsola, nacque a Vitulano il 29 novembre 1860 e morì nel suo paese nativo il 21 dicembre 1924.
Sposato con Lupone Maria Sofia Concetta, ebbe tre figli: Lidia, Ugo e Aldo. Non si hanno altre notizie della sua vita, se non quelle desumibili dalla sua attività di studioso e dalla sua presenza, come professore di filosofia, in diverse sedi del paese.
Dalle sue pubblicazioni si ricava che, tra la fine dell’ottocento e i primi anni del novecento, era in servizio come professore di filosofia prima ad Ascoli Piceno e poi in un Liceo di Roma. Dal 1904 era Libero docente di Filosofia teoretica nell’Università di Napoli.
Già in quegli anni, Angelo Martini si afferma come protagonista del dibattito culturale, pubblicando, tra il 1900 e il 1908, un’opera intitolata Fatti psichici e fatti fisiologici – Spirito e corpo, in cui l’esposizione dettagliata delle teorie di derivazione positivista, che l’Autore mostra di conoscere in maniera approfondita, si accompagna a una critica rigorosa di ogni forma di materialismo.
Seguace dichiarato delle correnti spiritualistiche, Angelo Martini contesta le posizioni avversarie non con argomentazioni dottrinarie, derivate da tradizioni filosofiche o religiose, ma con trattazioni e analisi rigorose che utilizzano ampiamente il patrimonio di conoscenze acquisite fin allora intorno alla fisiologia del cervello e alle sue relazioni con la psicologia.
L’opera, preceduta da uno studio già pubblicato nel 1899 e intitolato Il metodo in generale – L’analisi e la sintesi, ebbe notevole risonanza tra gli intellettuali dell’epoca. Tra l’altro, fu recensita dalla Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, organo ufficiale dell’Unione Cattolica per gli studi sociali, ispirata da Giuseppe Toniolo, che aveva, tra i suoi collaboratori, intellettuali come Gaetano De Sanctis. Angelo Mauri e Achille Ratti (il futuro papa Pio XI).
Nel 1906, Angelo Martini vinse il concorso per la cattedra di filosofia teoretica nell’Università di Catania e, in tale occasione, lasciò Roma per trasferirsi con la famiglia a Catania, come aveva già fatto in precedenza spostandosi da Ascoli Piceno a Roma.
A partire da tale data e fino al dicembre del 1923, tenne la cattedra di filosofia teoretica. Dal 1912 al 1919, fu anche professore di storia della filosofia e, dall’anno accademico 1917-18 fino al 1920, fu inoltre incaricato di insegnare filosofia morale.
Studioso di problemi filosofici, i suoi interessi spaziavano dalla filosofia alla pedagogia e soprattutto alla psicologia, senza escludere una costante attenzione ai problemi della didattica e della scuola in genere. Per questo fu chiamato a svolgere numerosi incarichi ministeriali come ispettore e, in tale veste, effettuò ispezioni in vari licei della Puglia, della Toscana e di altre regioni d’Italia.
Collaborò con la Scuola di Magistero dell’Università degli studi di Catania e, nel 1918, fu professore incaricato per le Conferenze di Magistero per la pedagogia, in sostituzione del professor Giuseppe Lombardo Radice, illustre pedagogista e suo collega nella stessa Università, impegnato, in quel periodo, al fronte.
Continua a pubblicare, in quegli anni, altre opere importanti e, tra queste, uno studio su I fatti psichici riviviscenti, in cui sono analizzati, con ricchezza di argomentazioni, i problemi che riguardano la natura dei contenuti della memoria e dell’immaginazione in rapporto a quelli dell’esperienza vissuta.
Il libro suscitò notevole interesse nel mondo culturale dell’epoca, meritando una recensione sulle pagine della prestigiosa Revue Néoscolastique, palestra autorevole di discussione e di ricerca dell’Istituto Superiore di Filosofia dell’Università Cattolica di Lovanio, fondata nel 1894 dal futuro cardinale Désiré Mercier e diretta, all’epoca, da Padre Agostino Gemelli.
La vita di Angelo Martini fu però sconvolta da un tragico evento, quello della morte del figlio Ugo, un giovane di appena vent’anni caduto in combattimento, sul fronte alpino, nel luglio del 1916. Il dolore inconsolabile per la perdita del figlio getterà il professore Martini in uno stato di prostrazione e di sconforto dal quale non riuscirà più a riprendersi. Sarà quindi costretto a lasciare anzitempo la sua cattedra per spegnersi, appena un anno dopo, nella sua casa in Vitulano.
La sua figura di uomo e di docente è così descritta nel necrologio che gli riservava la sua Università e che, di seguito, viene parzialmente riprodotto.
“Angelo Martini fu un uomo tutto d’un pezzo nella vita teoretica e pratica, per sincerità dei sentimenti e coerenza di pensiero e di condotta, privata e pubblica.
Religioso per educazione e per sentimento non fece mai propaganda della sua fede, anzi ci teneva a rispettare la fede degli altri, specialmente quando si accorgeva che era professata con sincerità.
Dotato di un senso assai squisito di coscienza morale, come non sempre si trova tra gli intellettuali, egli provava il massimo godimento nell’assolvere il suo ufficio di educatore scrupolosamente”.
Il profilo, riportato nelle pagine dell’annuario dell’Università degli Studi di Catania, relativo all’anno accademico 1924-25, delinea, nel suo insieme, la figura di un docente austero e rigoroso, capace di unire alla profondità del pensiero un raro senso di equilibrio, di tolleranza e di disponibilità al dialogo.
Testimonianza degli apprezzamenti riscossi dall’uomo e dallo studioso sono anche le onorificenze che gli furono conferite: venne infatti nominato prima Cavaliere e, poi, Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, titoli riservati ai cittadini italiani e stranieri che si fossero resi benemeriti verso la Nazione.
(Mennato Raviele)

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Mons. Ernesto Mazzella
Michele Capobianco
(Vitulano, 1921 – Napoli, 2005) è stato un architetto italiano, attivo nella città di Napoli.

Biografia
Nato nel 1922 in provincia di Benevento, Capobianco si laureò in architettura, insieme ad altri ventidue studenti, nel 1946. Negli anni universitari fu allievo di Marcello Canino, dove lavorò presso il suo studio sin dal 1943. Subito dopo la laurea aprì uno studio conArrigo Marsiglia. Nel 1948 ci furono le prime commissioni: un edificio a Poggioreale (1948), il padiglione dell’America Latina (1948-52) ed alcuni edifici per abitazioni al Parco Commola Ricci (1952-55). Nel 1950, in seguito ad una vista eseguita da una delegazione di professori e studenti svedesi per studiare i nuovi quartieri popolari, Capobianco, sollecitato da alcuni architetti svedesi, fu invitato ad andare in Svezia. AStoccolma frequentò Sven Markelius e studiò la cultura urbanistica nordica, ritornato a Napoli fu chiamato da Canino per sostenere l’esame di libera docenza. Nel 1955 progettò un palazzo per abitazioni a piazzetta Santo Stefano per il quale vinse il premio Inarch nel 1961, contemporaneamente con Giulio De Luca progettò l’edificio Decina al Parco Grifeo.
Negli anni sessanta fu attivo, come molti altri, nella progettazione di quartieri popolari e nel 1964, insieme a Riccardo Dalisi e Massimo Pica Ciamarra, realizzò il Palazzo della Nuova Borsa Merci. Divenne professore Emerito di Progettazione architettonica alla Facoltà dell’ università Federico II dal 1973 al 1988. Collaborò insieme a Pica Ciamarra e Corrado Beguinot alla progettazione del palazzo di Giustizia, i cui lavori terminarono dopo l’incendio della torre più alta. Negli anni ottanta progettò a Miano alcuni quartieri popolari realizzati nell’ottica del PSER, diversi edifici nel Centro Direzionale e le stazioni della metropolitana Vanvitelli, Medaglie d’Oro e Colli Aminei. Nel 1992 vinse un secondo premio Inarch e successivamente fondò la rivista di architettura ArQ. Il figlio Lorenzo ha intrapreso anch’egli la carriera di architetto, proseguendo alcuni cantieri del padre come il restyling della Stazione Vanvitelli al Vomero, la prima stazione d’arte del progetto della nuova Metropolitana di Napoli.

Mennato Boffa

(Benevento, 23 dicembre 1929 – Napoli, 28 settembre 1996) è stato un pilota automobilistico italiano. Vinse numerose gare in Italia ed all’estero, principalmente al volante di vetture Maserati Sport.

Gli esordi
Nato a Benevento il 23 dicembre 1929[1], venne dichiarato all’anagrafe solo il 4 gennaio 1930. Si avvicinò al mondo delle corse nel 1938, quando il padre Carmine lo portò con sé a vedere il Gran Premio di Posillipo a Napoli.
Nel 1953 partecipò alle prove ufficiali di una gara in salita, la Catania-Etna. A bordo della sua Fiat 1100 R con cui si era recato per lavoro in Sicilia, ottenne il miglior tempo di classe ma non era soddisfatto del suo ragguaglio confrontato con il crono registrato dal campione italiano Gino De Sanctis, che secondo lui guidava un’analoga vettura.
Dopo due anni scoprì, leggendo Auto Italiana, che De Sanctis era sempre stato al volante di una 1100 elaborata con cui aveva, fra le altre ottime prestazioni, anche stabilito il record sul km lanciato in circa 153 km/h, mentre la sua a stento raggiungeva i 110 km/h!
Il mercoledì precedente il Gran Premio di Posillipo del 1955, acquistò dal padre di Cesare Fiorio una Lancia Aurelia B20 con cui debuttò in pista nell’ambito di una gara sociale. A Posillipo ottenne di gran lunga il giro più veloce in gara, ma collezionò anche un consistente numero di testacoda proprio nella curva da lui più amata, la curva Ascari. Il lunedì seguente controllata l’Aurelia si scoprì che aveva un ammortizzatore posteriore completamente staccato.

I successi
Targa Florio 1956: ecco in quali condizioni era la B20 di Mennato Boffa subito dopo aver concluso la corsa.
Nel 1956 e nel 1957 corse con la famigerata, per via della pericolosità nell’essere portata al limite, Maserati 1500 Sport. Colse 28 vittorie e non graffiò mai neanche un parafango per un suo errore, pur avendo avuto un tremendo schianto al Giro di Sicilia a causa di un malinteso mentre si apprestava a superare Franco Cortese.
Dopo una breve parentesi da pilota ufficiale Ferrari (corse il Giro di Sicilia ed il Gran Premio di Posillipo del 1957 con la Ferrari Testarossa 2000 CC).
Nel 1959 partecipa alla 43esima edizione della Targa Florio, in coppia con Piero Drogo, a bordo di una Maserati A6G; i due si classificarono al quinto posto.
Fu alla guida dei bolidi del Tridente dal 1958 fino al 1961 ed in occasione del suo ritorno nell’anno 1964. Dapprima pilotò una datata A6GCS, poi passò al volante di una nuovissimaBird Cage, sempre di 2000 cc.
Si aggiudicò il Campionato Italiano Sport nel 1960/61 e poi dopo 3 anni di stop, al rientro sporadico nel 1964. Per essere più precisi anche nel 1958 per numero di punti conquistati, avrebbe dovuto essere lui il Campione Italiano ma non raggiunse il minimo di gare da disputare e così il Titolo andò a Tedeschi.
Nel 1960 giunse terzo nel Campionato Europeo della Montagna e nel 1961 fu Vice Campione Europeo dietro le Porsche Sport, imbattibili su fondi misti e dissestati. Nel 1961 disputò anche tre gare, seppur non valide per il campionato mondiale, in Formula 1 alla guida della Cooper Climax 1500 cc con cui anni prima, Jack Brabham si era aggiudicato il Mondiale.[2] Partì in prima fila al G.P. di Vienna, giungendo poi quinto al traguardo, si classificò nono al GP di Siracusa, mentre problemi alla vettura lo afflissero al suo amato G.P. di Posillipo. La vettura fu spedita in Inghilterra e da lì avrebbe fatto ritorno molto tempo dopo a causa di problemi con l’azienda incaricata della riparazione. Poco dopo si iscrisse al Gran Premio d’Italia, ma non vi prese parte.
Il ritorno
Mennato Boffa nel 1979 tornò a cimentarsi in pista ed in salita. Alla guida della Ritmo 1150 cc Gr.2 colse numerosissime affermazioni in salita ed in circuito. Partecipò pure ad alcune gare con l’Osella 2000 BMW, con la quale ottenne anche buoni risultati tra il 1979 ed il1980.
Per poter essere competitivi bisognava provare tantissimo e poter disporre del pieno supporto di un team prestigioso. Boffa non poté dedicarsi a tempo pieno all’automobilismo perché si occupava della conduzione della sua azienda nel campo degli autoricambi. È morto a Napoli il 28 settembre 1996.

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Pasquale Capobianco

Capobianco Pasquale Giuseppe di Michele e di Guadagno Almerinda   Nato a Vitulano il 10 marzo 1889 (atto n. 27)   coniugato con Cosentino Antonietta il 29 agosto 1915

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Documento

Alfonso Checchia - Generale di Corpo d'Armata

Figlio di Donato e di Rosa Buono

Nato a Vitulano il 14.3.1900  Morto a Roma il 23.7.1967

– Allievo Accademia di Modena 1922-25 

– Scuola di Guerra  1934-37 

– Capitano Comandante di Compagnia in Albania 1939-40

– Maggiore Comandante di Battaglione in Croazia 1941

– Tenente Colonnello di Stato Maggiore in Russia 1942-43

– Nello Stato Maggiore Regio Esercito 1943-47

– Sottocapo di Stato Maggiore al Comiliter di Napoli 1948-50 

– Colonnello Comandante III Reggimento Bersaglieri 1950-52

– Capo Ufficio Servizi di Stato Maggiore Esercito 1952-53

– Generale di Brigata Capo Reparto Stato Maggiore Esercito  1954-55

– Generale di Brigata V. Comandante Divisione Corazzata “Ariete” 1955-56 

– Direttore Generale Servizi di Commissariato e Amministrativi 1957-58 

– Generale di Divisione Comandante Divisione Corazzata “Centauro” 1956-59

– Sottocapo dello Stato Maggiore Esercito 1959-61

– Generale di Corpo d’Armata Comandante Regione Militare Centrale 1961-63 

– Presidente Centro Studi Difesa Civile 1963-67

CAMPAGNE DI GUERRA:   Libia — Albania — Croazia — Russia — Italia 

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La Prof.ssa Rosa Checchia Spagnuolo, con nota del 01 marzo 2001, acquisita al protocollo, comunicò di voler donare al Comune, l’immobile sito alla Via F. Falluto da dedicare alla memoria del padre Alfonso Checchia — Generale di Corpo d’Armata.  Il Consiglio Comune di Vitulano nella seduta del 28/05/2001 con deliberazione n. 13, ad unanimità dei voti, deliberò di acquisire al patrimonio comunale l’immobile di Via F. Falluto.

Orazio Mazzella

30 maggio 1860 Nato a Vitulano

22 settembre 1883 – ordinato sacerdote Priest

21 Feb 1896 – nominato Vescovo ausiliare di Bari (-Canosa), Italia

21 Feb 1896 – Nominato Vescovo titolare di Cuma

23 Feb 1896 – consacrato Vescovo Vescovo titolare di Cuma

24 Mar 1898 – Nominato Arcivescovo di Rossano, Italia

14 Apr 1917 – Nominato Arcivescovo di Taranto, Italia

1 Nov 1934 – Rassegnati Arcivescovo di Taranto, Italia

1 Nov 1934 – nominato Arcivescovo titolare di Laodicea in Siria

30 lug 1939 – Morto Arcivescovo emerito di Taranto, Italia  

Dice monsignor Mazzella che in primo luogo le grandi catastrofi sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio che ci scuote e ci richiama con il pensiero ai nostri grandi destini, al fine ultimo della nostra vita che è immortale. Infatti se la Terra non avesse pericoli, dolori, catastrofi la Terra eserciterebbe sopra di noi un fascino irresistibile, non ci accorgeremmo che è un luogo di esilio e dimenticheremmo troppo facilmente che noi siamo cittadini del cielo.   Ma in secondo luogo, osserva l’arcivescovo di Rossano Calabro, le catastrofi sono talora esigenza della giustizia di Dio, della quale sono giusti castighi. Infatti alla colpa del peccato originale che tocca tutta l’umanità si aggiungono nella nostra vita le nostre colpe personali.    

Nessuno di noi è immune dal peccato e può dirsi innocente. E le nostre colpe possono essere personali o collettive, possono essere le colpe di un singolo o quelle di un popolo ma mentre Dio premia e castiga i singoli nell’eternità è sulla Terra che premia o castiga le Nazioni, perchè le Nazioni non hanno vita eterna, hanno un orizzonte terreno. Nessuno può dire con certezza se il terremoto di Messina ieri o quello del Giappone oggi sia stato un castigo di Dio.    Sicuramente è stata una catastrofe e scrive Monsignor Mazzella “la catastrofe è un fenomeno naturale che Dio ha potuto introdurre nel suo piano di creazione per molteplici fini degni della sua sapienza e bontà”. Ha potuto farlo per raggiungere un fine della stessa natura, ottenendo per mezzo della catastrofe un bene fisico pià generale come quando con una tempesta di venti che produce danni si purifica l’aria. Ha potuto farlo per un fine di ordine morale come per esempio acuire il genio dell’uomo, eccitarlo a studiare la la natura per difendersi dalla sua potenza distruggitrice e così determinare il progresso della scienza. Ha potuto farlo per uno dei fini per i quali la fede ci dice che talora l’ha fatto, come sarebbe quello di infliggere ad una città un esemplare castigo. Ha potuto farlo per un fine a noi ignoto.   

Per quale fine in concreto Dio ha operato in un caso speciale? Per quale fine Messina e Reggio sono state distrutte? Chi potrebbe dirlo? È possibile fare delle congetture, non è possibile affermare alcuna cosa con certezza. Intanto per noi, al nostro scopo basta la sicurezza che le catastrofi possono essere, e talora sono, esigenza della giustizia di Dio. E aggiungiamo questo concetto che Dio talora si serve delle grandi catastrofi per raggiungere un fine alto della sua giustizia si trova in tutte le pagine della Sacra Scrittura: che cosa furono il diluvio, il fuoco che cadde su Sodoma e Gomorra e quello che non si abbattè su Ninive se non castighi di Dio? Però si dice la catastrofe è cieca, punisce il colpevole ma colpisce anche l’innocente. Come si conciliano con la provvidenza queste stragi dell’innocenza e della virtù che avvengono ad esempio nel terremoto.   

La risposta è che Dio non potrebbe fare in modo che un terremoto colpisca il colpevole e rispetti l’innocente se non attraverso la moltiplicazione di miracoli, attraverso una profonda modifica del piano della creazione divina. Ora è chiaro che Dio può salvare e talvolta salva l’innocente operando un miracolo ma Dio non è obbligato a moltiplicare i miracoli o a rinunziare al piano della sua creazione per salvare la vita di un innocente. E poi Dio è padrone della vita e della morte di ognuno, misura i giorni dell’uomo sulla Terra e stabilisce l’ora e il modo della morte di ciascuno. Quindi l’innocente che muore sotto una catastrofe generale che punisce i colpevoli si trova nella stessa condizione nella quale si trovano tutti gli innocenti che sono sorpresi dalla morte. Per loro questa morte non è un castigo di colpa personale ma è l’esecuzione di un decreto di colui che è il padrone della vita e della morte.  

Ogni giorno noi vediamo fanciulli innocenti, uomini virtuosi che muoiono di morte naturale o violenta. Perchè meravigliarsi quando poi vediamo molti fanciulli innocenti o uomini virtuosi morire sotto le rovine di un terremoto. La loro morte presa isolatamente non è diversa da quella di tanti uomini innocenti virtuosi che sono vittime di un accidente, muoiono ad esempio schiacciati da una macchina o investiti sotto un treno.   Ma c’è un terzo punto: le grandi catastrofi non sono solo spesso atti di giustizia di Dio ma sono altrettanto spesso una benevola manifestazione della misericordia di Dio. Abbiamo detto infatti che nessuno mettendosi la mano sulla coscienza potrebbe dare a se stesso un certificato di innocenza: nessuno può dire “io sono innocente” e non lo può dire né per il peccato originale che lo macchia né per i propri peccati personali.    

Un giorno quando sarà sollevato il velo che copre l’opera della provvidenza e alla luce di Dio vedremo quello che egli avrà operato nei popoli e nelle anime ci accorgeremo che per molte di quelle vittime che oggi compiangiamo il terremoto è stato un battesimo di sofferenza che ha purificato la loro anima da tutte le macchie anche le più lievi e grazie a questa morte tragica la loro anima è volata al cielo prima del tempo perchè Dio ha voluto risparmiarle un triste avvenire. Scrive monsignor Mazzella: noi pensiamo con raccapriccio a quei momenti terribili passati da loro tra la vita e la morte sotto le rovine ma forse appunto in quei momenti discese su quelle anime il torrente di una speciale misericordia di Dio sotto forma di profonda contrizione e rassegnazione. Chi può dire ciò che è passato tra quelle anime e la misericordia di Dio negli ultimi momenti! Chissà con quali slanci Dio misericordioso e buono nelle terribili sofferenze ha toccato i loro cuori per unirli a lui. Chi potrebbe in una parola scandagliare l’abisso di espiazione, di merito e di doni di Dio che in quelle anime fu scavato per occasione del terremoto.  

E non si tratta di pie illusioni. Perchè sta scritto che nella tribolazione Dio rimette più facilmente i peccati e versa più abbondantemente i suoi doni e sta scritto che Dio manda la morte prematura agli innocenti per liberarli da un triste avvenire.   Per comprendere l’azione della Provvidenza che dà una ragione a tutto ciò che avviene, anche alle tragedie come i terremoti, bisogna però avere una prospettiva soprannaturale, la prospettiva di chi crede nell’esistenza di un Dio creatore e remuneratore della vita eterna. Chi nega Dio, gli atei, i laicisti militanti, ma anche coloro che pur non professando l’ateismo vivono di fatto nell’ateismo pratico, costoro non possono concepire l’idea della Provvidenza.   riflessioni sul terremoto di Messina del 1908 del mons. Orazio Mazzella tratte dallo scritto La provvidenza di Dio, l’efficacia della preghiera, la carità cattolica ed il terremoto del 28 di Dicembre 1908: cenni apologetici, Desclée e C., Roma 1909.  

 

 


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